giovedì 22 ottobre 2015

Confessione inutile p. 2

Sonnecchio sull’autobus che mi porta all’ospedale. Ondeggio fra il sonno e la veglia assecondando scossoni e sobbalzi del mezzo. Fantasticherie; e se un giorno, come Gregor, mi svegliassi mutato nel corpo, trasformato in scarafaggio? Ecco quello che farei: scriverei a qualche programma demenziale, di quelli che incollano allo schermo per ore casalinghe frustrate, senza interruzioni (come saprete, dal referendum del 2037 la pubblicità è in forma di fotogrammi subliminali, impressi direttamente nel subconscio dello spettatore). Verrei accolto a braccia aperta, coccolato da qualche stupida casalinga superdotata emblema e idolo di milioni di stupide casalinghe botulinate. Nel suo grembo farei le fusa come un gatto in un salotto buono, raccontando i miei sogni e le mie speranze (che farei mai, se potessi tornare umano?), raccogliendo comprensione e dolcezza. Magari potrei scriverci un libro, e vendere milioni di copie, infinitamente più di Kafka. Che grandiosa quest’epoca di passioni tristi e vuoti simulacri.

Mi sveglio di soprassalto gridando “AL LADRO!” perché non trovo più i crisantemi. La gente si gira a guardarmi, ma i fiori sono lì, caduti ai miei piedi. Li raccolgo e scendo, fortuna vuole, alla fermata giusta.

Dentro all’ospedale c’è sempre il solito puzzo insopportabile. Puzzo di morte, ma di morte implicita, di morte codarda, sanitarizzata e impacchettata. Preferirei mille volte il sano tanfo di un cadavere in putrefazione.

Una volta avevo il mio odore preferito: quello della sala cinematografica. Burro, pop corn, aria condizionata, stoffa delle poltrone, celluloide. Era così chiaro ed intenso: ed ora l’ho scordato. Sono anni che non metto piede al cinema. Da quando l’unica catena di multisala rimasta a fare proiezioni pubbliche ha deciso che fosse più conveniente proiettare i film a 125 fotogrammi al secondo, per adeguarsi alle capacità cognitive del nuovo pubblico. Per gli arretrati, come me, il management propone una spruzzata di neurostimolanti prima delle visione. Tutto compreso nel prezzo. Mi sono sempre rifiutato, ma tornerò a provarli.

Rieccomi, comunque, nell’ospedale. Trovare la stanza in cui è ricoverata la vecchina non mi è difficile. L’ospedale è semi-deserto e otto dottori si accalcano al suo capezzale discutendo animatamente mentre quella, con la testa fasciata e gli occhi sbarrati, stringe le dita nodose alle lenzuola, aggrappandosi terrorizzata. Non mi si nota, mentre entro silenzioso, coi fiori dietro la schiena, e guardo fuori dalla finestra.

Una campanella suona nel corridoio. Il vociare dei dottori si placa un istante, e tutti all’unisono portano la mano destra agli occhiali digitali per controllare lo schermo interno. Pochi secondi dopo il suono dei loro tacchi che s’allontanano si perde nell’ospedale, lasciando me e la vecchina soli nel silenzio.

Sorridendole m’avvicino, m’appoggio al suo letto, lascio scivolare i fiori ai suoi piedi. La guardo negli occhi, nei suoi piccoli occhi offuscati e pieni di confusione e paura. Cerco di rasserenarla: non ti preoccupare, le dico con voce angelica, è tutto a posto. Dall’altra parte, lo sai, ti stiamo aspettando, continuo a dirle, e tendo la mano, accarezzandole la guancia rugosa. Soffocata dal terrore lei geme e nasconde la testa spelacchiata sotto le coperte. E lì resta, immobile.
Scivolo giù dal suo letto e su per quello vuoto e sfatto che sta a pochi passi di distanza. Nascondo la testa sotto le lenzuola e sprofondo nel sonno.

Sogno i teneri baci degli amanti de “L’Atalante” di Vigo, e i loro sussurri segreti che nascondono il senso dell’esistenza. Tendo l’orecchio ma sento solo il felice e stonato canto dell’ottuso marinaio, che si prende gioco di me. Che vergogna ammettere l’odio e l’invidia brucianti che provo per l’eterno, sereno amore di pellicola dei due sposi. Con le loro innocenti risate nelle orecchie piango divorato dall’angoscia.


Se solo potessi abbandonare me stesso. Quanto è volgare l’esistenza quando è consapevole. Tutti i nostri desideri narcisistici e miserabili compiacimenti. Quanto mi danno la nausea. Se solo avessi la forza necessaria m’infilerei la mano nel petto e mi strapperei il cuore. Poi lo getterei ad un branco di cani selvatici e li guarderei con gioia mentre se lo contendono, latrando feroci, strappandone brandelli, inebriandosi del sangue, fino ad azzannarsi e divorarsi l’un l’altro. Ascolterei i loro ululati demoniaci, con attenzione, per capire, finalmente..

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