venerdì 23 ottobre 2015

Siamo capaci di soffrire solo davanti ad uno specchio.


L'empatia, è forse morta? O è solo la vergogna, che non conosciamo più? 
Il desiderio di essere giusti e nobili per suscitare ammirazione, la casa di vetro del console romano, che fine hanno fatto?
Ritorniamo sempre lì, al saggio Sileno, quella voce interiore, quella consapevolezza che pretende un agire continuo, un lenire continuo, un continuo distrarsi per sfuggirle.

La consapevolezza che noi siamo di passaggio, in un mondo di passaggio, e passare qualcosa è l'unica cosa che ha senso fare. 

Che tutto ciò che non va donato, va perduto.
La direzione è una e la via è oscura. 
Il sacrificio è il massimo dono.
Per nutrire una fiamma nella notte.
L'annullamento dell'ego.


giovedì 22 ottobre 2015

L'epoca delle passioni tristi.

Una ventina di bambine di varie età, ma vestite della stessa tutina nera e scarpine rosa pallido, si allenano alle sbarre o sui tappeti della piccola palestra sotto la supervisione di una donna sui quarant'anni dall'espressione autoritaria. I suoi seccati richiami sovrastano sovente la delicata melodia che riempie l'aria della stanza: si tratta dell'aria sulla quarta corda di Bach.

Gli esercizi di riscaldamento sembrano annoiare alcune delle bambine, che approfittano di ogni distrazione della insegnante per scherzare e ridere tra loro. Richiamata con uno sguardo severo della maestra, una di queste bambine si allontana dalle altre e s'avvicina alle ampie vetrate. Fuori il cielo è così grigio da rendere difficile capire che ore siano. La bambina sbuffa annoiata, poi abbassa distrattamente lo sguardo al cortile sottostante. Ci sono pochi alberi, pochi aceri color del bronzo, in quello che sembra l'anonimo cortile recintato di rosso di una scuola.

Laggiù nel cortile, leggermente nascosti dal fogliame, ci sono sei ragazzini. Tre stanno in piedi a guardare e tre si azzuffano al centro di una piccola radura. Il tumulto confuso scatena l'eccitazione della bambina che a gesti richiama le compagne; non bastano i rimproveri della istitutrice per dissuadere le bambine che, contagiate dall'euforia della prima, s'affollano per gruppi spintonanti alle finestre, a bocca aperta.

Il pestaggio avviene in una atmosfera di sospensione surreale.
Dei sei ragazzini, dall'età non superiore ai tredici anni, uno è a terra, dolorante, gemente, senza fiato nei polmoni per urlare, e due lo assaltano senza sosta, a calci e pugni. Gli altri guardano. Fra loro c'è Paolo. Paolo ha dodici anni e stringe lo zaino al petto, sopra il giaccone pesante. Guarda con occhi sbarrati, l'espressione sperduta, da sconfitto. Gli altri due osservatori invece ghignano e fomentano il pestaggio con versi animaleschi di soddisfazione. Nell'aria aleggia ancora leggera la sinfonia di Bach, alla quale si uniscono presto gli schiamazzi delle bambine alla finestra. Paolo si gira e le guarda. Sopra le piccole teste che ballonzolano euforiche c'è quella dell'insegnante che si sbraccia per ristabilire l'ordine.

Il rumore secco dello spezzarsi di legno riporta l'attenzione di Paolo sul pestaggio. Uno degli assalitori ha trovato un bastone mezzo marcio per terra e lo stringe minaccioso mentre torreggia sulla sua vittima, che sta rannicchiata e piagnucolante fra le foglie marce. Impietosamente il bullo solleva il bastone e poi l'abbassa con violenza. Un tonfo. Paolo chiude gli occhi. Nel cortile il silenzio è assoluto. Totale. Anche ghigna e lamenti infine tacciono. Anche la musica trattiene il fiato e soffoca.

Poi i quattro colpevoli fuggono. Paolo rimane solo con quel corpo disteso. Si avvicina fino a poter vedere il sangue che comincia a colorare la testa bruna fra le foglie. Paolo stringe ancora più forte lo zainetto al petto. Ancora gli manca il respiro. Una quiete fatale è ristabilita: anche su nella palestra gli schiamazzi ormai tacciono, e l'aria sulla quarta corda di Bach torna a risuonare ovunque, placida e contemplativa. Lentamente il sangue denso e scuro scorre dalla nuca del giovane, giù sulla lana grezza del cappottino, e si raccoglie in coppe formate dalle foglie d'acero morte e seccate. Come può esserci pace adesso? Questo chiedono gli occhi di Paolo.


Niente

Se, mentre cammino per strada
sento come un colpo di pistola
ed un proiettile 
che m'esplode il cranio
allora mi giro,
e il più delle volte
non è successo NIENTE.
Ma qualche volta scopro
di essere già morto
e vado avanti lo stesso.

La vecchia che gioca al videopoker sta perdendo i capelli. 
I ragazzini usciti da scuola fumano le sigarette. 
Sopra il suv che sfreccia oltre i vecchi barboni 
c'è un venticinquenne abbronzato che parla al telefono.
 I cartelloni pubblicitari mi hanno circondato e ho paura. 
Il tempo e lo spazio sono la stessa cosa. 
Il mio inferno è ora.

No empatia, no partecipazione, no comunità.


La distruzione del senso del sacro - il filo che ci lega l'uni agli altri, alla natura, all'universo - va avanti da millenni. Difficile individuare un momento storico preciso, una epifania dell'individualismo ottuso (io direi che ha qualcosa a che fare con il monoteismo ma poi è facile darmi dal mangiapreti e si ha pure ragione.)

Sta di fatto che è anche passato più di un secolo da quando ci siamo davvero accorti che stavamo distruggendo un tempio - il luogo preposto alla creazione del sacro - e ci siamo domandati se saremmo stati in grado di costruirne uno nuovo sopra le macerie - il tempio della creazione del senso, il tempio di una nuova era di spirito veramente umanistico e perciò veramente spirituale. E quindi comincio a chiedermi quanto deve durare questo processo e se davvero stiamo andando nella direzione giusta, perché a me, a volte, sembra che il tempio che stiamo costruendo sia quello non dello spirito umano ma piuttosto quello del narcisismo e dentro non ci compiamo alcun sacrificio ma soddisfiamo solamente i nostri ingordi capricci.

Confessione inutile p. 2

Sonnecchio sull’autobus che mi porta all’ospedale. Ondeggio fra il sonno e la veglia assecondando scossoni e sobbalzi del mezzo. Fantasticherie; e se un giorno, come Gregor, mi svegliassi mutato nel corpo, trasformato in scarafaggio? Ecco quello che farei: scriverei a qualche programma demenziale, di quelli che incollano allo schermo per ore casalinghe frustrate, senza interruzioni (come saprete, dal referendum del 2037 la pubblicità è in forma di fotogrammi subliminali, impressi direttamente nel subconscio dello spettatore). Verrei accolto a braccia aperta, coccolato da qualche stupida casalinga superdotata emblema e idolo di milioni di stupide casalinghe botulinate. Nel suo grembo farei le fusa come un gatto in un salotto buono, raccontando i miei sogni e le mie speranze (che farei mai, se potessi tornare umano?), raccogliendo comprensione e dolcezza. Magari potrei scriverci un libro, e vendere milioni di copie, infinitamente più di Kafka. Che grandiosa quest’epoca di passioni tristi e vuoti simulacri.

Mi sveglio di soprassalto gridando “AL LADRO!” perché non trovo più i crisantemi. La gente si gira a guardarmi, ma i fiori sono lì, caduti ai miei piedi. Li raccolgo e scendo, fortuna vuole, alla fermata giusta.

Dentro all’ospedale c’è sempre il solito puzzo insopportabile. Puzzo di morte, ma di morte implicita, di morte codarda, sanitarizzata e impacchettata. Preferirei mille volte il sano tanfo di un cadavere in putrefazione.

Una volta avevo il mio odore preferito: quello della sala cinematografica. Burro, pop corn, aria condizionata, stoffa delle poltrone, celluloide. Era così chiaro ed intenso: ed ora l’ho scordato. Sono anni che non metto piede al cinema. Da quando l’unica catena di multisala rimasta a fare proiezioni pubbliche ha deciso che fosse più conveniente proiettare i film a 125 fotogrammi al secondo, per adeguarsi alle capacità cognitive del nuovo pubblico. Per gli arretrati, come me, il management propone una spruzzata di neurostimolanti prima delle visione. Tutto compreso nel prezzo. Mi sono sempre rifiutato, ma tornerò a provarli.

Rieccomi, comunque, nell’ospedale. Trovare la stanza in cui è ricoverata la vecchina non mi è difficile. L’ospedale è semi-deserto e otto dottori si accalcano al suo capezzale discutendo animatamente mentre quella, con la testa fasciata e gli occhi sbarrati, stringe le dita nodose alle lenzuola, aggrappandosi terrorizzata. Non mi si nota, mentre entro silenzioso, coi fiori dietro la schiena, e guardo fuori dalla finestra.

Una campanella suona nel corridoio. Il vociare dei dottori si placa un istante, e tutti all’unisono portano la mano destra agli occhiali digitali per controllare lo schermo interno. Pochi secondi dopo il suono dei loro tacchi che s’allontanano si perde nell’ospedale, lasciando me e la vecchina soli nel silenzio.

Sorridendole m’avvicino, m’appoggio al suo letto, lascio scivolare i fiori ai suoi piedi. La guardo negli occhi, nei suoi piccoli occhi offuscati e pieni di confusione e paura. Cerco di rasserenarla: non ti preoccupare, le dico con voce angelica, è tutto a posto. Dall’altra parte, lo sai, ti stiamo aspettando, continuo a dirle, e tendo la mano, accarezzandole la guancia rugosa. Soffocata dal terrore lei geme e nasconde la testa spelacchiata sotto le coperte. E lì resta, immobile.
Scivolo giù dal suo letto e su per quello vuoto e sfatto che sta a pochi passi di distanza. Nascondo la testa sotto le lenzuola e sprofondo nel sonno.

Sogno i teneri baci degli amanti de “L’Atalante” di Vigo, e i loro sussurri segreti che nascondono il senso dell’esistenza. Tendo l’orecchio ma sento solo il felice e stonato canto dell’ottuso marinaio, che si prende gioco di me. Che vergogna ammettere l’odio e l’invidia brucianti che provo per l’eterno, sereno amore di pellicola dei due sposi. Con le loro innocenti risate nelle orecchie piango divorato dall’angoscia.


Se solo potessi abbandonare me stesso. Quanto è volgare l’esistenza quando è consapevole. Tutti i nostri desideri narcisistici e miserabili compiacimenti. Quanto mi danno la nausea. Se solo avessi la forza necessaria m’infilerei la mano nel petto e mi strapperei il cuore. Poi lo getterei ad un branco di cani selvatici e li guarderei con gioia mentre se lo contendono, latrando feroci, strappandone brandelli, inebriandosi del sangue, fino ad azzannarsi e divorarsi l’un l’altro. Ascolterei i loro ululati demoniaci, con attenzione, per capire, finalmente..

Confessione inutile p. 1

Io disprezzo la gente. Non la odio: la disprezzo. Il disprezzo sta all’odio come l’uomo sta alla bestia. C’è molta più civiltà e raffinatezza dietro il mio sentimento. O almeno così mi dico. Ma a volte questo disprezzo è così prepotente da farmi tremare come e più dell’odio. Il più delle volte, in realtà, lo vivo con un sereno e cinico distacco. Attraverso uno schermo vedo il mondo e me stesso e vi confesso: non trovo ragioni per escludermi da questo disprezzo.
Ora ad esempio sto qui, al bar del supermercato. Guardo gli schermi della sicurezza. Guardo una corsia, quella del cibo e accessori per animali. C’è per terra una striscia di liquido scuro, blu o verde, ma attraverso lo schermo è impossibile determinarne la natura. E’ detersivo. L’ho sparso io, solo pochi minuti fa, fingendo di lasciarlo colare da una confezione difettosa (che io ho aperto) sistemata sul fondo del mio carrello. Poi ho allertato il personale del supermercato. Ho pagato per le mie poche cose ed ho ordinato un caffè corretto sedendomi al bar. Aspetto.

Un grosso macchinario da pulizie passa per la corsia, sbuffando liquido schiumoso e ruotando le spatole. Fa rapidamente pulizia del mio detersivo. Mi rigiro la tazzina di caffè fra le dita. Il macchinario scompare dallo schermo lasciando un invisibile strato di liquidi e detersivi sul pavimento della corsia. Mi avvicino la tazzina alle labbra. Una vecchina entra nell’inquadratura. Assaporo l’aroma del caffè. La vecchia avanza. La vecchia è concentrata su quale mangime prendere al suo gatto. La vecchia è gambe all’aria e poi lunga distesa, immobile. Vado alla cassa per pagare il caffè che già cominciano ad arrivare i soccorsi. Dalle vetrate li osservo caricare la vecchia sull’ambulanza e partire, come si dice, a sirene spiegate.

Per far ammenda decido di informarmi su quale sia l’ospedale più vicino, a cui probabilmente han portato la malcapitata. Poi esco, e mi sovviene che sarebbe scortese da parte mia presentarsi a mani vuote. Fortuna vuole che vicino al supermercato ci sia un bel cimitero e, per di più, noto un corteo che sta varcandone i cancelli diretto ad una tumulazione. M’avvicino senza dare nell’occhio.

E’ uno di quei funerali veri, fatti per chi muore giovane o di morte violenta. La gente è accorsa in gran numero e cammina curva dietro al piccolo feretro d’un ragazzo. La madre, in testa, singhiozza inconsolabile, stringendo un mazzo di crisantemi fra le dita. La raggiungo lesto e la prendo fra le braccia, facendole fare qualche giravolta danzante. Quella mi guarda stupefatta e io le dico: non pianga signora, pensi piuttosto a quel che dice il fauno sileno. Le strappo i crisantemi dalle mani e soffiandole un bacio me la dò a gambe.