Sonnecchio sull’autobus
che mi porta all’ospedale. Ondeggio fra il sonno e la veglia
assecondando scossoni e sobbalzi del mezzo. Fantasticherie; e se un
giorno, come Gregor, mi svegliassi mutato nel corpo, trasformato in
scarafaggio? Ecco quello che farei: scriverei a qualche programma
demenziale, di quelli che incollano allo schermo per ore casalinghe
frustrate, senza interruzioni (come saprete, dal referendum del 2037
la pubblicità è in forma di fotogrammi subliminali, impressi
direttamente nel subconscio dello spettatore). Verrei accolto a
braccia aperta, coccolato da qualche stupida casalinga superdotata
emblema e idolo di milioni di stupide casalinghe botulinate. Nel suo
grembo farei le fusa come un gatto in un salotto buono, raccontando i
miei sogni e le mie speranze (che farei mai, se potessi tornare
umano?), raccogliendo comprensione e dolcezza. Magari potrei
scriverci un libro, e vendere milioni di copie, infinitamente più di
Kafka. Che grandiosa quest’epoca di passioni tristi e vuoti
simulacri.
Mi sveglio di soprassalto
gridando “AL LADRO!” perché non trovo più i crisantemi. La
gente si gira a guardarmi, ma i fiori sono lì, caduti ai miei piedi.
Li raccolgo e scendo, fortuna vuole, alla fermata giusta.
Dentro all’ospedale c’è
sempre il solito puzzo insopportabile. Puzzo di morte, ma di morte
implicita, di morte codarda, sanitarizzata e impacchettata.
Preferirei mille volte il sano tanfo di un cadavere in putrefazione.
Una volta avevo il mio
odore preferito: quello della sala cinematografica. Burro, pop corn,
aria condizionata, stoffa delle poltrone, celluloide. Era così
chiaro ed intenso: ed ora l’ho scordato. Sono anni che non metto
piede al cinema. Da quando l’unica catena di multisala rimasta a
fare proiezioni pubbliche ha deciso che fosse più conveniente
proiettare i film a 125 fotogrammi al secondo, per adeguarsi alle
capacità cognitive del nuovo pubblico. Per gli arretrati, come me,
il management propone una spruzzata di neurostimolanti prima delle
visione. Tutto compreso nel prezzo. Mi sono sempre rifiutato, ma
tornerò a provarli.
Rieccomi, comunque,
nell’ospedale. Trovare la stanza in cui è ricoverata la vecchina
non mi è difficile. L’ospedale è semi-deserto e otto dottori si
accalcano al suo capezzale discutendo animatamente mentre quella, con
la testa fasciata e gli occhi sbarrati, stringe le dita nodose alle
lenzuola, aggrappandosi terrorizzata. Non mi si nota, mentre entro
silenzioso, coi fiori dietro la schiena, e guardo fuori dalla
finestra.
Una campanella suona nel
corridoio. Il vociare dei dottori si placa un istante, e tutti
all’unisono portano la mano destra agli occhiali digitali per
controllare lo schermo interno. Pochi secondi dopo il suono dei loro
tacchi che s’allontanano si perde nell’ospedale, lasciando me e
la vecchina soli nel silenzio.
Sorridendole m’avvicino,
m’appoggio al suo letto, lascio scivolare i fiori ai suoi piedi. La
guardo negli occhi, nei suoi piccoli occhi offuscati e pieni di
confusione e paura. Cerco di rasserenarla: non ti preoccupare, le
dico con voce angelica, è tutto a posto. Dall’altra parte, lo sai,
ti stiamo aspettando, continuo a dirle, e tendo la mano,
accarezzandole la guancia rugosa. Soffocata dal terrore lei geme e
nasconde la testa spelacchiata sotto le coperte. E lì resta,
immobile.
Scivolo giù dal suo
letto e su per quello vuoto e sfatto che sta a pochi passi di
distanza. Nascondo la testa sotto le lenzuola e sprofondo nel sonno.
Sogno i teneri baci degli
amanti de “L’Atalante” di Vigo, e i loro sussurri segreti che
nascondono il senso dell’esistenza. Tendo l’orecchio ma sento
solo il felice e stonato canto dell’ottuso marinaio, che si prende
gioco di me. Che vergogna ammettere l’odio e l’invidia brucianti
che provo per l’eterno, sereno amore di pellicola dei due sposi.
Con le loro innocenti risate nelle orecchie piango divorato
dall’angoscia.
Se
solo potessi abbandonare me stesso. Quanto è volgare l’esistenza
quando è consapevole. Tutti i nostri desideri narcisistici e
miserabili compiacimenti. Quanto mi danno la nausea. Se solo avessi
la forza necessaria m’infilerei la mano nel petto e mi strapperei
il cuore. Poi lo getterei ad un branco di cani selvatici e li
guarderei con gioia mentre se lo contendono, latrando feroci,
strappandone brandelli, inebriandosi del sangue, fino ad azzannarsi e
divorarsi l’un l’altro. Ascolterei i loro ululati demoniaci, con
attenzione, per capire, finalmente..